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giovedì 25 aprile 2024

LA TERRA DEGLI APACHES

1473_LA TERRA DEGLI APACHES (Walk the Proud Lane). Stati Uniti 1956; Regia di Jesse Hibbs.

Durante il secondo conflitto mondiale, Audie Murphy fu un vero eroe di guerra, tanto da guadagnarsi il titolo di militare più decorato dell’Esercito americano. Una volta in congedo, Murphy si dedicò al cinema, ancora una volta con onore, seppure non riuscendo a ripetere i fasti delle sue imprese belliche. Reciterà in tantissimi film, spesso da protagonista, ma finendo via via quasi sempre più confinato in produzioni di serie B. A tarpare le ali alle sue velleità artistiche –ad inizio carriera fu diretto da registi come John Huston o Joseph l. Mankiewicz, ma poi, come detto, diverrà uno specialista delle produzioni minori– furono alcuni suoi limiti tecnico-estetici. Non aveva una presenza scenica che si imponesse, aveva sì un bel viso, pulito, ma con poco «carattere», e, malauguratamente, pur sapendo reggere lo schermo, non era interprete di grande spessore. Tuttavia, forse per il suo passato di eroe, non finì relegato al ruolo di comparsa: era un protagonista, ma adeguato unicamente a pellicole senza particolari approfondimenti. Storie semplici, psicologie appena abbozzate, figure simboliche più che tridimensionali: i B-movie, appunto. In qualche caso questa ricetta funzionava e, ad Hollywood, se qualcosa poteva funzionare, erano in grado di farla funzionare meglio e più spesso. La terra degli Apaches, western di Jesse Hibbs è un classico esempio in tal senso. Il film è indiscutibilmente apprezzabile per una serie di motivi, tra i quali la valorizzazione di un interprete come appunto Murphy, altre volte –al di là della benevolenza con cui è sempre stato trattato– onestamente poco convincente. La terra degli Apaches è un film di serie B un po’ atipico perché si prende la briga di raccontare una vicenda storica, impostata su un periodo della vita di uno dei protagonisti reali del west, vale a dire John Clum. 

Clum è una figura abbastanza nota dell’epopea della frontiera americana, non fosse altro perché ai tempi della sparatoria dell’Ok Corral a Tombstone era il sindaco della città, nonché amico fidato di Wyatt Earp. Il suo è un ruolo che non manca quasi mai nei film dedicati all’evento e, in effetti, lo possiamo trovare tanto nel classico Sfida infernale (1946, regia di John Ford), come negli esempi più recenti Tombstone (1993, di George Pan Cosmatos) o Wyatt Earp (1994, di Lawrence Kasdan). Ma Clum è un personaggio storico assai più importante per un altro motivo: fu il primo agente indiano a trattare gli Apaches con umanità e trasformò letteralmente la riserva di San Carlos, in Arizona, che arrivò a dotarsi di autogoverno, con tanto di forze di polizia autonome. La clamorosa esperienza di Clum come agente indiano venne narrata dal figlio, Woodworth Clum, nel libro Apache agent, che servì agli sceneggiatori Gil Doud e Jack Sher e al regista Jesse Hibbs, per realizzare La terra degli Apaches. Era il 1956, giova ricordarlo, e un film, un B-movie a sfondo storico prodotto ad Hollywood, metteva oltre ogni minimo dubbio gli Apaches dalla parte della ragione e la cavalleria degli Stati Uniti da quella del torto. La terra degli Apaches, va riconosciuto, è piuttosto schematico, non approfondisce i temi e, oltretutto, la regia di Hibbs non si segnala per particolari guizzi o intuizioni. Tuttavia il formato CinemaScope, accompagnato dalle calde immagini in Technicolor, riescono anche stavolta nell’impresa di nobilitare almeno sul piano tecnico un lavoro valido ma non proprio eccezionale. Tornando alla stilizzazione del racconto, il film si schiera apertamente con gli Apaches –che del resto avevano esattamente quelle ragioni che vengono mostrate– ma non rischia di cadere nell’apologia indiana visto che, accanto a personaggi postivi, tra i nativi, sono mostrati anche quelli assai più discutibili. 
Tra i primi meritano una citazione il capo Eskiminzin (Robert Warwick) e Taglito, [che si pronuncia Tagh-lito] interpretato dal ballerino e coreografo Tommy Rall. Se Santos (Victor Millan), figlio di Eskiminzin, è solo un po’ irrequieto – oltre che coinvolto sentimentalmente in una disputa con Clum, cosa che lo rende particolarmente ostile all’agente indiano– ben diverso è il caso di Geronimo, il bellicoso condottiero degli Apaches ribelli. Ad interpretare questa cruciale figura storica, venne chiamato un vero specialista: Jay Silverheels. Famoso più che altro per essere stato Tonto nella serie televisiva di Lone Ranger, l’attore di etnia Mohawk era già stato un credibile Geronimo ne L’amante indiana (1950, di Delmer Daves) e in Kociss, l’eroe indiano (1952, George Sherman). Anche stavolta, Silverheels riesce a tratteggiare un villain decisamente affascinante, pur se ben poco amichevole. Il film è romanzato seppur rispetti formalmente alcuni dettagli storici: la scorrettezza delle autorità che gestivano San Carlos per il proprio tornaconto a danno degli Apaches, la riforma della riserva voluta da Clum, e perfino la cattura di Geronimo da parte di questi e della polizia indiana senza bisogno di ingaggiare uno scontro ma beffandolo con un trucco. Nel racconto il tutto è semplificato perché, tra l’altro, ci sono un paio di tracce sentimentali che si intersecano e occorre condensare il film entro l’ora e mezza canonica per le produzioni minori. La prima delle protagoniste femminili è una fulgida Ann Bancroft nel ruolo di Tianay, una vedova Apache che si innamora di Clum, ma lei stessa è l’oggetto del desiderio di Santos. L’agente indiano è, per altro, già fidanzato, e sposerà, nel corso del film, Mary (Pat Crowley) che, arrivando dall’est, si troverà catapultata nel mezzo di una polverosa e ben poco accogliente riserva indiana. Ad aiutarla a superare i prevedibili problemi d’ambientamento e a ritrovare la giusta sintonia con Clum saranno proprio i saggi consigli di Tianay, che, pur se malincuore, riuscirà a vincere la legittima rivalità. Il finale riserva un piccolo accenno che lascia intendere che Tianay finisca per accettare la corte di Carlos. E vissero, quindi, tutti felici e contenti? Mica tanto, perché prima della chiusura si assiste al ritorno sulla scena dell’esercito degli Stati Uniti, nient’affatto rassegnato a vedere San Carlos autogestita dagli Apaches. La cavalleria americana trovò il pretesto per tornare a spadroneggiare sulle terre dei nativi, come era sempre stata solita fare. Va bene romanzare per esigenze culturali, educative o anche solo spettacolari, ma, considerato la Storia, probabilmente un lieto fine per gli Apaches può figurare unicamente in un film di fantascienza.  






Anne Bancroft 



Pat Crowley




Galleria 











martedì 23 aprile 2024

LA FORESTA DEGLI IMPICCATI

1472_LA FORESTA DEGLI IMPICCATI (Padura Spanzuratilor). Romania 1965; Regia di Liviu Ciulei.

Bastano un paio di minuti a Liviu Ciulei per impostare il suo La Foresta degli Impiccati. Dopo una breve didascalia introduttiva, la Macchina da Presa inquadra una strada polverosa, poi raggiungiamo una colonna di soldati dell’Impero Austroungarico in marcia. L’immagine è in bianco e nero, la musica un po’ straniante, la fila di soldati ripresa da dietro riempie presto lo schermo dei tipici Stahlhelme , gli elmetti che erano in uso agli eserciti degli imperi centrali. Improvvisamente, uno dei soldati si gira alle sue spalle, guardando nell’obiettivo della Macchina da Presa; la musica ha una fastidiosa e acuta dissonanza, l’immagine si ferma sul fotogramma. Irrompono i titoli di testa, poi si insiste sull’immagine del soldato che guarda indietro, finché si arriva all’inizio del racconto filmico vero e proprio. Ma in quell’ermetico incipit, c’è già il senso del film: cosa succede se, nel corso forzato degli eventi della Storia, qualcuno guarda dietro di sé? Cosa succede se a qualche individuo sorge il dubbio di verificare cosa ci si è lasciato alle spalle, quali sono i frutti del proprio agire? Insomma, la guerra è sempre uno dei momenti chiave della Storia, e i soldati che marciano compatti simboleggiano tutti coloro che si lasciano guidare dagli ordini senza tentennamenti, dubbi, rimorsi. Il soldato de La Foresta degli Impiccati che guarda alle sue spalle è il qualcuno di cui si accennava prima; uno che si pone un dubbio, che si fa un esame di coscienza. E’ infatti una scena simbolica, non essendo legata al resto del racconto; e il fatto che il militare guardi in macchina, suggerisce che è compito proprio del cinema cercare di fungere da coscienza e in questo senso va quindi interpretato il lavoro di Liviu Ciulei che va successivamente ad entrare nel vivo. Siamo nel fronte rumeno, durante la Prima Guerra Mondiale e la storia comincia con un’impiccagione per diserzione. A finire sulla forca sarà il tenente Svoboda che, in forza al suo nome (che in slovacco significa libertà) aveva cercato appunto di disertare. E’ il tenente Apostol Bologa (Victor Rebengiuc) a fornirci queste indicazioni, mentre informa il capitano Klapka (interpretato dallo stesso regista Liviu Ciulei), appena aggregatosi al reparto. Il lavoro di imbastitura di Ciulei è sopraffino, fin da questi primi dettagli: il protagonista della storia è Bologa che appare sicuro del fatto suo, preoccupato di mettere in piedi un’esecuzione a regola d’arte coi pochissimi mezzi a disposizione, addirittura fiero di aver fatto parte della corte marziale che ha condannato Svoboda. 

Klapka non sembra affatto così contento di vedere qualcuno giustiziato, forse perché è di origine ceca proprio come Svoboda. Il comportamento perplesso del capitano, le sue parole, cominciano a minare la sicurezza di Bologa. E’ la funzione del cinema, evidenziata dal fatto che il personaggio di Klapka è interpretato dal regista del film: fare sorgere almeno qualche dubbio. E in Bologa, una volta che si è aperto uno spiraglio nell’ipocrita adesione ai dettami militari, i dubbi fioriscono in quantità: lui è rumeno ma di un’area sotto l’Impero Austroungarico e quindi si trova ora a combattere i propri connazionali. E questa situazione alimenterà, ora che gli è venuta meno la completa e ottusa adesione ai dettami militari, i suoi tentennamenti, i suoi scrupoli. Al punto che lo stesso capitano Klapka si sentirà quasi in obbligo di farlo tornare su posizioni più opportunistiche, evitando cioè di mettersi in luce come disfattista presso il comando militare. Quasi come se il cinema possa, in qualche caso, superare gli intenti stessi dei suoi autori. La funzione del cinema e la sua potenza anche e soprattutto nei confronti degli autori e non solo del pubblico, è resa in modo esplicito dalla vicenda del riflettore. Un fascio di luce (il cinema?) proveniente dalle linee nemiche tormenta le notti di Klapka (la coscienza del regista?) che, per poter continuare a prestare servizio sotto l’esercito, ha bisogno che il proiettore venga fatto smettere. Il capitano, come detto, è di origine ceca ed è già stato sospettato di infedeltà all’Impero; un altro passo falso gli sarebbe infatti fatale. 

Ed è proprio a Bologa, colui di cui ha risvegliato la coscienza, che ordina di distruggere il faro. Bologa compie l’impresa, inoltrandosi oltre le linee nemiche e perdendo un cannone e alcuni uomini del commando: ma ai vertici militari pare comunque un’operazione di grande coraggio. Il tenente si lascia però sfuggire qualche perplessità e, proprio nel momento in cui è all’apice della sua carriera militare, comincia il suo declino, finendo sospettato di avere rimorsi di coscienza. Il tema delle diserzioni era probabilmente reale tra le fila di un esercito multietnico come quello Austroungarico; il regista se ne serve per un primo passo nell’ottica di una presa di coscienza di quanto la guerra sia inaccettabile anche da un punto di vista laico e non solo religioso, come sembrava poter essere interpretabile dal racconto di Liviu Rebreanu all’origine del soggetto. La traccia religiosa, intuibile già dal nome del protagonista, Apostol, non può però essere trascurata dal film: saranno dodici, proprio come gli apostoli, i contadini impiccati perché volevano arare il terreno per la semina e questo mal si conciliava con le esigenze belliche. Quando questi poveretti vedono Bologa, rumeno come loro, si illudono che possa fare qualcosa per salvarli: in effetti, con evidente sadismo, il comando ha designato proprio il tenente per presiedere la corte marziale che deve condannare (la sentenza era già decisa) i suoi connazionali. Ma se Bologa è una figura salvifica, lo è solo in senso morale, proprio come Cristo: non manca nemmeno l’ultima cena, offertagli dalla dolce Ilona (Ana Széles). Le donne della storia rappresentato le possibilità di scelta per l’uomo: c’è Roza (Gina Patrichi), la prostituta, che offre una vita di piacere, cogliendo le opportunità; c’è Marta (Mariana Mihut), la sposa promessa, tutta superficialità e conformismo; e c’è Ilona, la povera contadina. Ormai Bologa non può più accettare, non solo la volgarità di Roza, ma nemmeno l’ipocrisia borghese di Marta: ma Ilona appartiene a quella gente che il tenente è chiamato a condannare a morte. 

La Foresta degli Impiccati è un testo morale, che riflette sulla coscienza dell’individuo e, in questo, riesce a divenire quindi universale. Per questo la varie tracce, quella privata (i rapporti con le donne), religiosa (la sua crisi morale), nazionale (il non voler combattere i nemici suoi compatrioti) si fondono in una teoria universale, suggerita nel film dalla presenza del soldato Johan Maria Müller (Emeric Scháfer). Müller nella vita civile ha un negozio di libri e quindi è depositario, in un certo senso, del sapere, della cultura collettiva. Oltre a Johan, il nostro porta il nome di Maria, cosa sottolineata con scherno in più di un passaggio nel film: Maria è un nome femminile, infatti, ma questo simboleggia l’universalità del personaggio che, con i suoi discorsi pacifisti, contribuisce alla redenzione morale di Bologa. Insomma la vicenda, che si avvale della solida base del citato libro preso a soggetto, è molto ben strutturata. Da un punto di vista formale prettamente cinematografico l’opera è altrettanto sorprendente: Liviu Ciulei si affida pochissimo al montaggio, preferendo riprese lunghe, quasi veri e propri piani-sequenza. La Macchina da Presa è in costante movimento, ora sinuoso, ora con violente panoramiche; l’impressione è di una rappresentazione realistica, in quanto poco artefatta. 

E’ un modo di interpretare il cinema molto raffinato, perché si rende una messa in scena che quasi ostenta i limiti del mezzo tecnico della ripresa, e che il montaggio maschera in modo pressoché perfetto, per rendere la ripresa stessa più credibile. E anche la scelta del bianco e nero sembra andare in questa direzione: si è optato per la soluzione fortemente non realistica (visto che la realtà è a colori) che era uno dei limiti storici del cinema, per conferire al testo un sapore documentaristico rievocando le immagini in bianco e nero che sono emblema della Grande Guerra. Perfino la musica lavora in modo non lineare, presentandosi con suoni ben poco armonici ma riuscendo, nel corso del lungometraggio e nel suo complesso, a creare un’atmosfera perfettamente complementare al testo filmico. Non a caso per La Foresta degli Impiccati Liviu Ciulei vinse il premio come miglior regia al Festival di Cannes del 1965, sebbene va detto che non sia un testo facilissimo. Il lavoro avvolgente del regista rumeno, inizialmente, può lasciare un po’ straniti; inoltre l’azione è praticamente assente e tutto lo sviluppo è affidato ai dialoghi o alla messa in scena, sobria e severa ma indiscutibilmente evocativa, si prenda la sequenza con i dodici impiccati come esempio. Insomma, un film che è davvero un esame di coscienza: duro, senza sconti ma, proprio per questo, gratificante.  






Anna Széles




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domenica 21 aprile 2024

ZOMBIE HOLOCAUST

1471_ZOMBIE HOLOCAUST .Italia 1980; Regia di Marino Girolamo.

Il produttore Fabrizio De Angelis era ben consapevole delle potenzialità del suo Zombi 2: il film di Lucio Fulci, uscito nell’agosto del 1979, non era stato un vero e proprio crack al botteghino, come si potrebbe pensare oggi che è divenuto un film di culto, eppure un certo clamore l’aveva riscosso. L’operazione di Fulci, oltre ad inserirsi nella scia dello Zombi di George A. Romero dell’anno precedente, alimentando la fama dei morti viventi cinematografici, li svincolava dalla critica sociale, presente nei film del regista americano, permettendo una più ampia gamma di soluzioni narrative. Che poi era la condizione originale degli zombie intesi come mostri orrorifici: La notte dei morti viventi, il film del 1968 di Romero, ne aveva rilanciato la figura nel mondo cinematografico ma il tema aveva radici assai più profonde. Assai più recentemente, invece, un altro tema orrorifico aveva preso piede, ovvero quello dei cannibali, che, con Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, uscito nel febbraio del 1980, nonostante i guai giudiziari, fece indiscutibilmente un clamore che lasciava intendere tutte le potenzialità di questo neonato filone del cinema di genere italiano. É un po’ riduttivo liquidare come scaltrezza l’acume di De Angelis nell’imbastire un connubio tra due correnti così in voga al tempo, ovvero i film sugli zombi e quelli sui cannibali, come spesso capita di leggere. In realtà il cinema degli zombi era da sempre, in qualche modo, connesso al cannibalismo, e ora che quest’ultimo argomento era salito agli altari della cronaca, era quasi legittimo sancire questo legame con una pellicola pensata ad hoc. Zombi Holocaust, che sintetizza già nel titolo i suoi riferimenti, nasce così e, almeno concettualmente, non è affatto un’idea strampalata o meramente speculativa. Non più di moltissimi altri film, in ogni caso, spaziando in qualunque genere. Il problema, semmai, in Zombi Holocaust, è che la messa in scena complessiva non regge le aspettative, anche quelle del semplice appassionato di film horror di puro intrattenimento. 

Intendiamoci, il film non è poi così osceno, si lascia guardare –a patto di averci lo stomaco– ed è anche divertente, ma le lacune di sceneggiatura, regia e anche la resa scenica di zombi e cannibali, lascia parecchio a desiderare. Più adeguati, al contrario, gli effetti di macelleria, vero piatto forte del film, nei quali si può apprezzare l’opera di Giannetto De Rossi e Giovanni Corridori. Tuttavia, anche dal punto di vista del trucco, Zombi Holocaust non convince pienamente, considerato che gli zombi sono assai poco credibili e, peraltro, anche i cannibali, che stando al copione sono abitanti di un’isola delle Molucche, sono caratterizzati in modo troppo anonimo. Ma il responsabile maggiore, in un film, è sempre il regista e per Zombi Holocaust venne ingaggiato Marino Girolami –celato dallo pseudonimo Frank Martin– un cineasta di lunghissimo corso. Girolami, maestro della commedia scollacciata del Belpaese, aveva già spaziato in generi più tesi, come i western o i polizieschi, sempre declinati nelle italiche versioni, ma mai, in oltre una settantina di film, si era spinto ad un horror estremo come Zombi Holocaust. Quello che manca, in definitiva, al film, è un po’ di complicità con lo spettatore, la strizzata d’occhio, che oltre ad alleggerire il clima narrativo, sarebbero indice di una partecipazione se non divertita, quantomeno convinta da parte dell’autore. 

E, in un film che si presenta come commistione tra due correnti del cinema di cassetta –o exploitation, per dirla all’anglosassone– di opportunità in questo senso ce ne sarebbero a iosa. Si nota, per la verità, un tentativo di riprendere lo stile di Deodato di Cannibal Holocaust, soprattutto nelle scene ambientate a New York o nel finale con l’incendio, ma sono citazioni sterili. Anche il “messaggio sociale”, con l’accusa al mad-doctor della situazione, di aver causato, con la sua abominevole pretesa scientifica, il ritorno alla barbarie degli indigeni, finisce per sembrare un riferimento estemporaneo, seppur è il presupposto narrativo di tutta quanta la storia. Che, dal punto di vista narrativo, convince assai poco anche se, ad un certo punto, uno dei protagonisti è messo in guardia proprio da quello che sembrava uno degli inciampi della sceneggiatura. Il che testimonia come il film sia scritto meno peggio di quello che può sembrare a prima vista. In ogni caso non è nel canovaccio che fonda la sua ragion d’essere il cinema di genere italiano del tempo, e certamente non lo fa Zombi Holocaust. Oltre ai citati effetti splatter, tra le note positive c’è la musica di Nico Fidenco, di cui molti passaggi ripetono quella di Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977, di Joe D’Amato). 

Per quel che riguarda il cast, una nota lieta è la protagonista, Alexandra Delli Colli, statuaria, di cui memorabile è la scena del rito in cui si mostra interamente nuda con dipinti floreali su tutto il corpo. Interessanti le presenze di alcuni attori già visti nei film di cannibali, come Donald O’Brien (è il folle dottor O’Brien) –era nel cast del citato Emanuelle e gli ultimi cannibali– e Dakar (è Moloto) –che era il sacerdote Voodoo in Papaya dei Caraibi, sempre di Joe D’Amato. Ma le connessioni presenti nel cast, probabilmente opera della produzione, non finiscono qui: il personaggio principale maschile è interpretato da Ian McCulloch, fresco protagonista del citato Zombi 2 di Fulci, mentre simbolica avrebbe potuto essere la figura di Walter Patriarca. Scenografo e costumista, tra gli altri, proprio in Zombi 2 e in Ultimo mondo cannibale (1977, regia di Ruggero Deodato), oltre al suo abituale lavoro, in Zombi Holocaust, si presta per il ruolo del dottor Drydock. Un medico rigoroso, come del resto lo è il cineasta che lo interpreta, che potrebbe essere la risposta alla medicina malata incarnata dal dottor O’Brien: un modo, forse, per ribadire come la serietà professionale sia da contrapporre a chi lavora in modo approssimativo. Come, ad esempio, praticare un intervento di trapianto cerebrale in una lercia baracca in mezzo alla foresta. Ma, per la distratta regia di Girolami, questa metafora rischia di essere un autogol.  



Alexandra Delli Colli 




Sherry Buchanan 



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