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giovedì 25 aprile 2024
LA TERRA DEGLI APACHES
martedì 23 aprile 2024
LA FORESTA DEGLI IMPICCATI
1472_LA FORESTA DEGLI IMPICCATI (Padura Spanzuratilor). Romania 1965; Regia di Liviu Ciulei.
Bastano un paio di minuti a Liviu Ciulei per impostare il
suo
Klapka non sembra affatto così contento di vedere qualcuno giustiziato, forse perché è di origine ceca proprio come Svoboda. Il comportamento perplesso del capitano, le sue parole, cominciano a minare la sicurezza di Bologa. E’ la funzione del cinema, evidenziata dal fatto che il personaggio di Klapka è interpretato dal regista del film: fare sorgere almeno qualche dubbio. E in Bologa, una volta che si è aperto uno spiraglio nell’ipocrita adesione ai dettami militari, i dubbi fioriscono in quantità: lui è rumeno ma di un’area sotto l’Impero Austroungarico e quindi si trova ora a combattere i propri connazionali. E questa situazione alimenterà, ora che gli è venuta meno la completa e ottusa adesione ai dettami militari, i suoi tentennamenti, i suoi scrupoli. Al punto che lo stesso capitano Klapka si sentirà quasi in obbligo di farlo tornare su posizioni più opportunistiche, evitando cioè di mettersi in luce come disfattista presso il comando militare. Quasi come se il cinema possa, in qualche caso, superare gli intenti stessi dei suoi autori. La funzione del cinema e la sua potenza anche e soprattutto nei confronti degli autori e non solo del pubblico, è resa in modo esplicito dalla vicenda del riflettore. Un fascio di luce (il cinema?) proveniente dalle linee nemiche tormenta le notti di Klapka (la coscienza del regista?) che, per poter continuare a prestare servizio sotto l’esercito, ha bisogno che il proiettore venga fatto smettere. Il capitano, come detto, è di origine ceca ed è già stato sospettato di infedeltà all’Impero; un altro passo falso gli sarebbe infatti fatale.
Ed è proprio a Bologa, colui di cui ha risvegliato la coscienza, che ordina di distruggere il faro. Bologa compie l’impresa, inoltrandosi oltre le linee nemiche e perdendo un cannone e alcuni uomini del commando: ma ai vertici militari pare comunque un’operazione di grande coraggio. Il tenente si lascia però sfuggire qualche perplessità e, proprio nel momento in cui è all’apice della sua carriera militare, comincia il suo declino, finendo sospettato di avere rimorsi di coscienza. Il tema delle diserzioni era probabilmente reale tra le fila di un esercito multietnico come quello Austroungarico; il regista se ne serve per un primo passo nell’ottica di una presa di coscienza di quanto la guerra sia inaccettabile anche da un punto di vista laico e non solo religioso, come sembrava poter essere interpretabile dal racconto di Liviu Rebreanu all’origine del soggetto. La traccia religiosa, intuibile già dal nome del protagonista, Apostol, non può però essere trascurata dal film: saranno dodici, proprio come gli apostoli, i contadini impiccati perché volevano arare il terreno per la semina e questo mal si conciliava con le esigenze belliche. Quando questi poveretti vedono Bologa, rumeno come loro, si illudono che possa fare qualcosa per salvarli: in effetti, con evidente sadismo, il comando ha designato proprio il tenente per presiedere la corte marziale che deve condannare (la sentenza era già decisa) i suoi connazionali. Ma se Bologa è una figura salvifica, lo è solo in senso morale, proprio come Cristo: non manca nemmeno l’ultima cena, offertagli dalla dolce Ilona (Ana Széles). Le donne della storia rappresentato le possibilità di scelta per l’uomo: c’è Roza (Gina Patrichi), la prostituta, che offre una vita di piacere, cogliendo le opportunità; c’è Marta (Mariana Mihut), la sposa promessa, tutta superficialità e conformismo; e c’è Ilona, la povera contadina. Ormai Bologa non può più accettare, non solo la volgarità di Roza, ma nemmeno l’ipocrisia borghese di Marta: ma Ilona appartiene a quella gente che il tenente è chiamato a condannare a morte.
E’ un modo di interpretare il cinema molto raffinato, perché si rende una messa in scena che quasi ostenta i limiti del mezzo tecnico della ripresa, e che il montaggio maschera in modo pressoché perfetto, per rendere la ripresa stessa più credibile. E anche la scelta del bianco e nero sembra andare in questa direzione: si è optato per la soluzione fortemente non realistica (visto che la realtà è a colori) che era uno dei limiti storici del cinema, per conferire al testo un sapore documentaristico rievocando le immagini in bianco e nero che sono emblema della Grande Guerra. Perfino la musica lavora in modo non lineare, presentandosi con suoni ben poco armonici ma riuscendo, nel corso del lungometraggio e nel suo complesso, a creare un’atmosfera perfettamente complementare al testo filmico. Non a caso per
Anna Széles
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domenica 21 aprile 2024
ZOMBIE HOLOCAUST
1471_ZOMBIE HOLOCAUST .Italia 1980; Regia di Marino Girolamo.
Il produttore Fabrizio De Angelis era ben consapevole delle potenzialità del suo Zombi 2: il film di Lucio Fulci, uscito nell’agosto del 1979, non era stato un vero e proprio crack al botteghino, come si potrebbe pensare oggi che è divenuto un film di culto, eppure un certo clamore l’aveva riscosso. L’operazione di Fulci, oltre ad inserirsi nella scia dello Zombi di George A. Romero dell’anno precedente, alimentando la fama dei morti viventi cinematografici, li svincolava dalla critica sociale, presente nei film del regista americano, permettendo una più ampia gamma di soluzioni narrative. Che poi era la condizione originale degli zombie intesi come mostri orrorifici: La notte dei morti viventi, il film del 1968 di Romero, ne aveva rilanciato la figura nel mondo cinematografico ma il tema aveva radici assai più profonde. Assai più recentemente, invece, un altro tema orrorifico aveva preso piede, ovvero quello dei cannibali, che, con Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, uscito nel febbraio del 1980, nonostante i guai giudiziari, fece indiscutibilmente un clamore che lasciava intendere tutte le potenzialità di questo neonato filone del cinema di genere italiano. É un po’ riduttivo liquidare come scaltrezza l’acume di De Angelis nell’imbastire un connubio tra due correnti così in voga al tempo, ovvero i film sugli zombi e quelli sui cannibali, come spesso capita di leggere. In realtà il cinema degli zombi era da sempre, in qualche modo, connesso al cannibalismo, e ora che quest’ultimo argomento era salito agli altari della cronaca, era quasi legittimo sancire questo legame con una pellicola pensata ad hoc. Zombi Holocaust, che sintetizza già nel titolo i suoi riferimenti, nasce così e, almeno concettualmente, non è affatto un’idea strampalata o meramente speculativa. Non più di moltissimi altri film, in ogni caso, spaziando in qualunque genere. Il problema, semmai, in Zombi Holocaust, è che la messa in scena complessiva non regge le aspettative, anche quelle del semplice appassionato di film horror di puro intrattenimento.
Intendiamoci, il film non è poi così osceno, si lascia guardare –a patto di averci lo stomaco– ed è anche divertente, ma le lacune di sceneggiatura, regia e anche la resa scenica di zombi e cannibali, lascia parecchio a desiderare. Più adeguati, al contrario, gli effetti di macelleria, vero piatto forte del film, nei quali si può apprezzare l’opera di Giannetto De Rossi e Giovanni Corridori. Tuttavia, anche dal punto di vista del trucco, Zombi Holocaust non convince pienamente, considerato che gli zombi sono assai poco credibili e, peraltro, anche i cannibali, che stando al copione sono abitanti di un’isola delle Molucche, sono caratterizzati in modo troppo anonimo. Ma il responsabile maggiore, in un film, è sempre il regista e per Zombi Holocaust venne ingaggiato Marino Girolami –celato dallo pseudonimo Frank Martin– un cineasta di lunghissimo corso. Girolami, maestro della commedia scollacciata del Belpaese, aveva già spaziato in generi più tesi, come i western o i polizieschi, sempre declinati nelle italiche versioni, ma mai, in oltre una settantina di film, si era spinto ad un horror estremo come Zombi Holocaust. Quello che manca, in definitiva, al film, è un po’ di complicità con lo spettatore, la strizzata d’occhio, che oltre ad alleggerire il clima narrativo, sarebbero indice di una partecipazione se non divertita, quantomeno convinta da parte dell’autore.
E, in un film che si presenta come commistione tra due correnti del cinema di cassetta –o exploitation, per dirla all’anglosassone– di opportunità in questo senso ce ne sarebbero a iosa. Si nota, per la verità, un tentativo di riprendere lo stile di Deodato di Cannibal Holocaust, soprattutto nelle scene ambientate a New York o nel finale con l’incendio, ma sono citazioni sterili. Anche il “messaggio sociale”, con l’accusa al mad-doctor della situazione, di aver causato, con la sua abominevole pretesa scientifica, il ritorno alla barbarie degli indigeni, finisce per sembrare un riferimento estemporaneo, seppur è il presupposto narrativo di tutta quanta la storia. Che, dal punto di vista narrativo, convince assai poco anche se, ad un certo punto, uno dei protagonisti è messo in guardia proprio da quello che sembrava uno degli inciampi della sceneggiatura. Il che testimonia come il film sia scritto meno peggio di quello che può sembrare a prima vista. In ogni caso non è nel canovaccio che fonda la sua ragion d’essere il cinema di genere italiano del tempo, e certamente non lo fa Zombi Holocaust. Oltre ai citati effetti splatter, tra le note positive c’è la musica di Nico Fidenco, di cui molti passaggi ripetono quella di Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977, di Joe D’Amato).
Per quel che riguarda il cast, una nota lieta è la protagonista, Alexandra Delli Colli, statuaria, di cui memorabile è la scena del rito in cui si mostra interamente nuda con dipinti floreali su tutto il corpo. Interessanti le presenze di alcuni attori già visti nei film di cannibali, come Donald O’Brien (è il folle dottor O’Brien) –era nel cast del citato Emanuelle e gli ultimi cannibali– e Dakar (è Moloto) –che era il sacerdote Voodoo in Papaya dei Caraibi, sempre di Joe D’Amato. Ma le connessioni presenti nel cast, probabilmente opera della produzione, non finiscono qui: il personaggio principale maschile è interpretato da Ian McCulloch, fresco protagonista del citato Zombi 2 di Fulci, mentre simbolica avrebbe potuto essere la figura di Walter Patriarca. Scenografo e costumista, tra gli altri, proprio in Zombi 2 e in Ultimo mondo cannibale (1977, regia di Ruggero Deodato), oltre al suo abituale lavoro, in Zombi Holocaust, si presta per il ruolo del dottor Drydock. Un medico rigoroso, come del resto lo è il cineasta che lo interpreta, che potrebbe essere la risposta alla medicina malata incarnata dal dottor O’Brien: un modo, forse, per ribadire come la serietà professionale sia da contrapporre a chi lavora in modo approssimativo. Come, ad esempio, praticare un intervento di trapianto cerebrale in una lercia baracca in mezzo alla foresta. Ma, per la distratta regia di Girolami, questa metafora rischia di essere un autogol.
Alexandra Delli Colli
Sherry Buchanan
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