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venerdì 29 marzo 2024

FRAULIEN DOKTOR

1459_FRAULIEN DOKTOR . Italia, Jugoslavia 1969; Regia di Alberto Lattuada.

C’è subito qualcosa che non quadra, come una nota stonata, in Fräulein Doktor di Alberto Lattuada: si tratta di un film bellico introdotto da titoli di testa tipicamente psichedelici come era in voga negli anni sessanta per i film di genere. La cosa che lascia spiazzati non è tanto l’inascoltabile cacofonia che li accompagna, quanto che a comporla sia stato chiamato Ennio Morricone, musicista che all’epoca aveva già alle spalle gli splendidi temi degli spaghetti western di Sergio Leone. Per quale motivo chiamare un simile autore, se poi gli si chiede di comporre una musica tanto dissonante? Come detto, c’è qualcosa di storto. Sia come sia, poi la storia comincia: e Fräulein Doktor sembra davvero un film di genere, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale. La protagonista è ispirata ad un personaggio storico, Fräulein Doktor appunto, una spia tedesca: e il film di Lattuada sembra appunto una storia di spionaggio bellico. Questo inizio conferma l’impressione grafica dei titoli di testa dal vago sapore pop e, in effetti, il clima della vicenda ricorda un po’ i film della spia più in auge in quei tempi, James Bond. E’ noto che le spie rischino la pelle se vengono scoperte eppure la situazione è tutt’altro che truce: ci sono finte esecuzioni, finti tradimenti e contro-tradimenti, insomma sembra un’interpretazione piuttosto leggera della questione bellica. E poi, quando il gioco si fa duro, Fräulein Doktor, interpretata da una splendida Suzy Kendall, si mette in moto e, per uccidere Lord Kitchener, affonda addirittura l’intera HSM Hampshire, una nave con tutto il suo equipaggio. Una strage, a ben vedere; eppure l’atmosfera non si infiamma più di tanto, forse perché Lattuada pare stemperare i toni con una messa in scena posticcia dei momenti più drammatici dell’affondamento. Certo, rimane il dubbio che l’artificiosità di questi passaggi sia da imputare ai limiti produttivi ma, in altre situazioni, sarà proprio la resa scenica a costituire il valore aggiunto di Fräulein Doktor. Tuttavia la fase iniziale sembra più che altro un onesto film di genere, con qualche valido spunto storico e una strizzata d’occhio alla contemporaneità nello stile proposto. A questo punto c’è un inserto in flashback che risulta un po’ estraneo al clima del racconto: entra in scena la sontuosa Capucine negli eleganti panni della dottoressa Saforet. 

Qui il riferimento storico è davvero stravolto, in quanto non pare proprio credibile (nemmeno in un film) che la formula di un gas tanto importante, come l’iprite, il gas velenoso detto mostarda, fosse tenuta in un'unica copia su un taccuino a casa della dottoressa Saforet. Lattuada è forse distratto, interessato a stuzzicare un po’ il pubblico, inserendo qualche dettaglio pruriginoso in cui né la Kendall né tantomeno Capucine possono però trarre grandi vantaggi: la loro bellezza vale ben oltre le scenette pseudo-lesbo di questa fase del lungometraggio. Archiviata la questione Soforet con un colpo di pistola, Fräulein Doktor si mette all’opera per la successiva operazione. Deve ghermire le informazioni sulla dislocazione delle riserve della prima linea alleata mentre il comando tedesco prepara l’utilizzo del gas venefico la cui formula è stata rubata dalla affascinante spia. Attraverso una complicata operazione, in puro stile film d’azione, il tenente Ruppert (Giancarlo Giannini) e altri ufficiali tedeschi si infiltrano nel comando belga e procurano l’esatta ubicazione delle truppe di riserva nemiche. Il successivo fuoco d’artiglieria tedesco non colpirà le trincee alleate ma i rincalzi, privando il nemico della possibilità di avere rinforzi in caso di necessità. La scena dell’incursione spionistica è calibrata magistralmente da Lattuada che adopera i classici cliché, come il montaggio alternato, per alimentare la tensione. 

La condotta spietata di Ruppert, che fredda il compagno una volta che questi è stato scoperto, mantiene il clima del racconto in pieno genere bellico, confermando i classici topoi narrativi, come ad esempio quello del soldato tedesco senza sentimenti. Il che era un luogo comune con evidenti fondamenti concreti storici ma l’utilizzo che ne fa Lattuada sembra unicamente legato alle consuetudini narrative. Il film, insomma continua il suo scorrere come onesto film bellico: l’inizio leggero, la parentesi erotica e adesso un po’ di adrenalina. Ci sarebbe da essere mediamente soddisfatti per un prodotto di genere condotto in porto in modo un po’ discontinuo ma godibile. Se non fosse che Lattuada ha in serbo il traumatizzante passaggio che trasforma Fräulein Doktor in opera a suo modo memorabile. Con il vento a favore, alla fine del bombardamento d’artiglieria, i tedeschi aprono le bombole con l’iprite, il famigerato gas mostarda. Da questo momento il lungometraggio ha un’impennata dal punto di vista scenico: le immagini del gas tossico sono già molto inquietanti ma quando le dense nuvole giallastre raggiungono la frontiera alleata si scatena l’orrore. Gli effetti dell’iprite non sono probabilmente così rapidi come mostrato nel film ma furono comunque terribili e, per essere unicamente una rappresentazione, Fräulein Doktor rende perfettamente l’idea di quale tragedia venne combinata. Ma non siamo ancora all’apice drammatica che la messa in scena di Lattuada raggiunge nel film: quando il gas comincia a diradarsi le truppe imperiali indossano maschere e tute per proteggersi e passano all’offensiva. 

L’incedere della cavalleria, con soldati e cavalli completamente bardati, sembra l’inesorabile avanzata di creature disumanizzate che sbucano dalla nebbia di un lugubre passato medioevale. Nella scenografia desolata, l’angosciante ed efficace musica di Morricone rende queste brevi scene tra le più inquietanti che si siano mai viste sul grande schermo. La guerra mostra così il suo vero aspetto, quello più truce; tuttavia questo non pare turbare la sensibilità di Fräulein Doktor. Nella sua indifferenza la donna sottovaluta però l’ostinazione del suo acerrimo nemico, il colonnello Foreman (Kenneth More). Sul filo di lana la spia tedesca è smascherata: a nulla le è valso l’appoggio di Mayer (James Booth) agente del servizio segreto tedesco passato al nemico. Mayer era implicato in un intricato gioco di tradimenti da cui era uscito ovviamente perdente, visto che Fräulein Doktor era in assoluto la migliore del lotto. Tuttavia subiva il fascino della donna e, per favorirla, aveva cercato di sviare le indagini di Foreman; nel finale i nodi erano venuti al pettine. E’ qui che Mayer, l’uomo senza dignità, reo di ripetuti cambi di casacca, ha un moto di passione e non esita ad uccidere gli inglesi, ora suoi alleati, pur di proteggere la donna che ama. E’ una manovra disperata nella quale lo stesso Mayer perde la vita: Fräulein Doktor non riesce a fermare i soldati tedeschi per tempo. La donna è spiazzata; è la prima volta, nel film, che qualcuno ha preso una decisione importante non per convenienza o ubbidendo ad un ordine. E’ un modo di comportarsi che scuote finalmente Fräulein Doktor che, ormai in salvo, in realtà si rende conto di essere perduta. La guerra non è ancora finita ma, almeno adesso, si comincia a comprenderne la gravità. La musica di Morricone, sui titoli di coda, stavolta è perfettamente intonata.



Suzie Kendall



 Capucine 



Silvia Monti 


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mercoledì 27 marzo 2024

1917

1458_1917 . Regno Unito, Stati Uniti 2019; Regia di Sam Mendes.

Si dice che il montaggio sia la vera anima del cinema: è attraverso il lavoro di taglia e incolla nella sala di montaggio che il film prende il suo ritmo ma, più che altro, prende vita. Questo in linea generale. Poi ci sono i geni come Alfred Hitchcock che, nel loro approcciarsi alla Settima Arte, provano volutamente ad andare contro le consuetudini, usando poi i risultati anticonvenzionali in modo consapevole per un preciso scopo. Come in Rope - Nodo alla gola, film del 1948 girato con dieci lunghi piano-sequenza poi assemblati in modo da sembrare un’unica lunga ripresa. L’assenza degli stacchi, tra una ripresa e l’altra, tra un primo piano e un campo medio, toglieva fiato alla narrazione, come da un film che si intitola Nodo alla gola è lecito attendersi. Sam Mendes, talentuoso regista inglese, conosce evidentemente Hitchcock e il suo cinema e se ne serve, come spunto d’ispirazione, per costruire 1917, uno splendido film girato come fosse composto da due lunghissimi piani-sequenza, interrotti unicamente dal momento in cui il protagonista, il caporale Schofield (George MacKay) perde i sensi. Tecnicamente il risultato è ottenuto anche in questo caso assemblando una serie di lunghe e complicatissime (da girare) riprese. In ogni caso il risultato finale è stupefacente; oltre a lasciare letteralmente senza fiato. Un risultato magistrale, 1917 è un capolavoro assoluto, ottenuto contravvenendo una delle regole comuni del cinema, l’uso sapiente del montaggio. Naturalmente anche in 1917 c’è il montaggio, per assemblare i lunghi piano-sequenza, ma limitato nella quantità e, in ogni caso, la sua funzione è quella di nascondersi, essere invisibile. Non sarà l’unico caso in cui Mendes ribalta le consuetudini del cinema classico, del resto l’epoca classica, se così si può definire, è finita da un pezzo; eppure il regista inglese riuscirà, proprio manipolando gli stilemi consueti, a fare un film classico. Cosa che, di questi tempi, è assai difficile da vedere sugli schermi. La cosa che ci dice che 1917 è un film classico è principalmente l’estrema funzionalità in rapporto all’apparente semplicità complessiva; a partire dalla trama, ad esempio: i caporali Schofield e Blake (Dean-Charles Chapman) devono avvisare il colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) di non lanciarsi all’attacco col Secondo Battaglione dei Devonshire Regiment; finirebbero in una trappola dei tedeschi. 

Ovviamente ci sono una serie di implicazioni: il fratello del caporale Blake è un tenente (Richard Madden) nel citato Secondo Battaglione e il comando ritiene che questo possa essere uno sprone per i due caporali affinché si prodighino al massimo per portare a termine la missione. Per arrivare a destinazione i nostri due eroi dovranno passare attraverso la terra di nessuno, la striscia che divideva le due trincee. Un’area irta di reticolati, tempestata da profondi ed insidiosi crateri da esplosioni, che spesso intrappolavano i soldati che sprofondavano nei fondali fangosi. In questa prima fase non ci sarebbe però stato il pericolo del fuoco nemico, visto che i tedeschi avevano abbandonato la loro trincea, arretrando su una precedente posizione. Questa manovra richiama alla mente quella che i tedeschi fecero nel febbraio/marzo del 1917 e nota come Operazione Alberich. Mendes è ancora una volta un po’ spiazzante perché, in un film che si presenta come molto realistico, manca infatti il montaggio, (ovvero il trucco principale del cinema, che ricordiamo è l’arte della finzione per eccellenza), inserisce una data sbagliata. La didascalia iniziale recita infatti 6 Aprile 1917: quindi non un giorno a caso, ma quello in cui gli Stati Uniti entrano in guerra. Uno sbaglio voluto, insomma. Un po’ come non usare il montaggio per realizzare un film di genere, come quello bellico che, è risaputo, dagli strumenti abituali del cinema trae abitualmente la sua forza. Perché 1917 non è un film sperimentale, è un film di guerra. Ma, e qui sta la grandezza di Sam Mendes, è anche un film storico, con l’anno usato come titolo e quella ricostruzione minuziosa che ci proietta indietro di più di un secolo, in un preciso momento in cui si stava facendo la Storia. E Mendes sa, da gran cineasta, che il cinema è l’arte della finzione che, proprio attraverso la sua non-pretesa di attendibilità storica, può riuscire, per assurdo, ad arrivare alla verità. L’arte è infatti sempre verità e 1917, pur con la sua data sbagliata e i suoi stratagemmi per camuffare i pochi tagli, lo è più di un documentario che pretenda di essere rigoroso ma che mai potrà eliminare il punto di vista di chi lo realizza. 

L’inghippo delle date, in 1917, si inserisce coerentemente nella strategia dell’opera che abbiamo visto fin qui: fare un film avvincente senza l’uso dello strumento più consono allo scopo (il montaggio); dare l’idea di un racconto realistico utilizzando tutta una serie di trucchi per dissimulare i tagli; fare un opera classica mentre se ne sta facendo una quasi sperimentale e, come detto, essere storicamente attendibile inserendo riferimenti temporali inesatti. Il fulcro di tutta questa manovra è quello che sempre Hitchcock definiva MacGuffin: il pretesto narrativo. In questo caso è il messaggio del comando al colonnello Mackenzie; narrativamente si tratta davvero di un pretesto, visto che non c’è nessun mistero, infatti, che lo riguarda. E’ un banale contrordine. Il punto è che deve essere portato in fretta attraversando una serie di pericoli: una volta passati oltre alla citata terra di nessuno, i nostri dovranno entrare nella trincea nemica, che ora dovrebbe essere abbandonata, e tagliare per un’area che i tedeschi si pensa abbiano lasciato libera nella loro Ritirata Strategica. Se lo spunto richiama ovviamente Gli anni spezzati (1981 regia di Peter Weir), la messa in scena passa dal film di guerra tradizionale al games-movie, con un fortissimo debito, nelle scene dopo il black-out di Schofield, alle scenografie dei videogames. I riferimenti cinematografici sono naturalmente numerosi, anche perché gli elementi in gioco sono quelli e quindi il rischio è quello di cogliere rimandi che poi sono solo coincidenze. Non è però frutto del caso, sebbene sia costruito per sembrarlo, il meccanismo narrativo legato alla borraccia con il latte. Fattoria abbandonata: Schofield sta mettendo il latte di un secchio nella borraccia. Proprio a questo punto c’è l’episodio dell’aereo abbattuto che culmina con la morte di Blake. A questo proposito, un altro ribaltamento delle convenzioni: i due umili fanti inglesi aiutano il nobile cavaliere dell’aria tedesco, che li ringrazia con una letale coltellata nella pancia di Blake. In quell’inferno che è 1917 persino il latte, uno dei simboli della vita, sembra quindi essere divenuto messaggero di morte. 

Ma ancora una volta non è così: la bambina trovata, che non è figlia della ragazza francese, altro elemento in qualche modo discordante, riceverà quel latte dal caporale Schofield e potrà sopravvivere. Al cinema, l’ottimismo, lo sguardo positivo verso il futuro, è legato alle vicende sentimentali che spesso trovano poi simbolicamente concretezza nei figli. In 1917 quasi non ci sono donne, la ragazza francese  non ha infatti il tempo per combinare molto, da un punto di vista narrativo, visto che Schofield ha una fretta dannata. E l’unica bambina della storia non è figlia di un qualcuno del film ma è probabilmente orfana. Eppure con le cure della ragazza che non sa nemmeno che nome abbia, e il latte della borraccia di Schofield, la bimba potrà sopravvivere. Anche questo passaggio narrativo arriva ad una soluzione opposta a quella che gli indizi presentavano: la bambina che dorme nel cassetto del comò è una sorta di lieto fine che, in linea con lo spirito anticonvenzionale ma al contempo classico del film, Mendes non piazza al termine del suo racconto. Il film, in effetti, non ha uno sviluppo lineare e questa è un’altra bella contraddizione visto che segue pedestremente il cammino di Schofield e Blake prima e del solo Schofield poi. 

L’idea di un lungo e unico piano sequenza potrebbe essere intesa come un’unica linea narrativa: il massimo della linearità, insomma. Invece, proprio da un punto di vista narrativo, il seguire unicamente le gesta del singolo protagonista ci isola dal contesto, costringendo anche noi ad un percorso non in linea con gli avvenimenti, ma attraverso essi. La cosa è resa graficamente dalla notevole scena in cui Schofield corre parallelamente alla trincea intralciando, e scontrandosi anche due volte, coi soldati del Secondo Battaglione che si stavano lanciando all’assalto proprio in quel momento. Il che significa che il caporale è arrivato tardi e i britannici stanno cadendo nella trappola tedesca ma, ovviamente, in un film contradditorio come 1917 non sarà del tutto così. Il messaggio alla fine arriva al colonnello Mackenzie che però non vuole sentire ragioni e cerca di ignorarlo; troppe volte le indecisioni del comando hanno vanificato sforzi e risultati pagati col sangue di troppi soldati. Ma Schofield insiste in modo ossessivo: il colonnello deve leggere il messaggio. Perché, e qui c’è il fulcro del film di Mendes, quello che c’è nel messaggio questa volta conta eccome, e fa la differenza. Non c’è più tempo per i MacGuffin di hitchcockiana memoria, non ci serve un pretesto narrativo. Ci serve sapere e ricordare che la guerra è la cosa peggiore che possa capitare. E in 1917, che è il messaggio scritto dal nonno del regista, nei suoi racconti sulla Grande Guerra, e che Mendes si incarica di consegnarci, c’è scritto proprio questo. Speriamo sia arrivato in tempo.     





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lunedì 25 marzo 2024

LE COLLINE DELLA MORTE

1457_LE COLLINE DELLA MORTE (Beneath Hill 60). Australia2010; Regia di J.ermy Hartley Sims.

Sebbene il ricordo del suo apporto alla Prima Guerra Mondiale sia più che altro legato alla Battaglia di Gallipoli, il contingente australiano ebbe una certa rilevanza anche sul fronte occidentale. Anzi, per la precisione sotto di esso. Nel giugno del 1917 la linea che contrapponeva le trincee correva lungo il Belgio e a Messines, presso Ypres, nelle Fiandre, si concentrò una delle battaglie più fragorose dell’intero conflitto. Bloccati sulle rispettive trincee da un’estenuante guerra di posizione, sia i britannici che i tedeschi avevano cominciato da tempo a scavare tunnel sotterranei al fine di riuscire ad avvicinare il nemico di soppiatto. Tra gli alleati, oltre agli inglesi, c’erano canadesi e gli australiani del Tunnelling Corps, tra le cui fila si distinse il capitano Woodward (Brendan Cowell). Oliver Woodward è il protagonista de Le colline della morte, film del 2010 di Jeremy Sims che racconta principalmente della battaglia di Messines. Il film ha così un fondamento storico e il legame con i fatti reali è esplicitamente dichiarato da una didascalia introduttiva. Inoltre, possiamo leggere una sorta di metafora in questo senso dalla scatoletta di legno fatta dalla recluta Tiffin (Harrison Gilbertson) che, come simbolico testimone, passa al capitano Woodward e quindi alla sua fidanzata, Marjorie (Bella Heathcote). Il percorso dal fronte di guerra europeo all’Australia, lontanissima dai campi di battaglia, è rilanciato ulteriormente dall’autenticità dell’oggetto mostrato nel film con un ideale ponte con la nostra realtà. La semplice scatola in legno, vuota certo, ma ben fatta, dal momento che Tiffin era un falegname, è stata infatti prestata dalla famiglia Woodward alla produzione di Le colline della morte: si tratta quindi dell’autentico oggetto dell’epoca. 

Un oggetto di scarso valore economico ma che mantiene intatto quello simbolico: il soldato Tiffin aveva avuto questo gesto di gratitudine verso il suo superiore e con quel regalo aveva cercato di ricambiare l’umanità con cui era stato trattato dal capitano. Ma adesso la recluta era rimasta intrappolata nel cuore della collina 60, poco prima della tremenda esplosione che era stata preparata dagli alleati. Il capitano Woodward era stato avvisato dal sergente Fraser (Steve La Marquand): Tiffin era rimasto sotto quando una parte di galleria era crollata. Ma l’ora X era scoccata, era giunto il momento della più grande esplosione della storia (almeno registrata fino all’epoca), un boato tremendo che si sarebbe sentito oltremanica, stando alle cronache. Circa 450 tonnellate di esplosivo stivato in una cavità scavata sotto la Collina 60, in pratica sotto le linee tedesche, e nessuna speranza, quindi, per il povero Tiffin, rimasto imprigionato in un tunnel a  pochi metri di distanza. Il soldato Tiffin: quando Woodward, ingegnere minerario, si era aggiunto al 1° Tunneling Company  lo aveva trovato impaurito e spaesato, ben poco considerato dai commilitoni. Il ragazzo era da comprendere: per un giovane falegname trovarsi a vivere costantemente sottoterra, in tunnel umidi e fangosi, con i tedeschi che spesso incrociavano il loro scavare con gli alleati e allora si scatenavano furibonde lotte corpo a corpo, al buio e, naturalmente, all’ultimo sangue. Si viveva in solitudine, in un ambiente oscuro e malsano, con il costante terrore di veder spuntare dal muro di terra umida il nemico. Tiffin, durante un servizio era stato preso dal panico al punto da scambiare il battito del suo cuore che gli pulsava nelle orecchie con i movimenti del nemico su cui doveva vigilare stando in ascolto con il rudimentale stetoscopio. 

Woodward, che invece nelle miniere ci lavorava anche nella vita civile come ingegnere, lo aveva rassicurato e confortato. E Tiffin, per ringraziarlo, aveva intagliato e assemblato una scatola portaoggetti, con un legno pregiato, forse quello preso da una chiesa nelle vicinanze, visto che a quelli del Tunnelings Corps serviva tutta la legna possibile, per armare le gallerie, e i boschi erano ormai stati rasi tutti al suolo. E ora Tiffin era bloccato sotto la galleria mentre Woodward era sul punto di azionare il detonatore, nonostante le proteste del sergente Fraser. Il sottoufficiale era il tipico sergente: inizialmente rude, sia con Tiffin che con Woodward visto che, seppure in modi diversi, erano comunque due novellini, aveva imparato nel corso del film a rispettarli per il valore mostrato. Ma l’esplosivo andava fatto scoppiare, non si poteva posticipare neppure un minuto, non in guerra dove ritardare una scelta poteva cambiare le sorti dell’intera battaglia. Una scelta, quella di azionare quel detonatore, che avrebbe accompagnato Woodward per tutta la vita: per questo aveva donato quella scatola alla donna che si apprestava a sposare, con la quale avrebbe condiviso il suo futuro. Una scatola che, come detto, è una sorta di testimone: dal fronte all’Australia, dalla vita reale al film. Un MacGuffin, in pratica, una sorta di pretesto, per dirla alla Alfred Hitchcock. Ma la scatola, a differenza nella valigia del genio inglese del cinema, non è vuota. Nella scatola c’è il battito del cuore di Frank Tiffin e di tutti gli innocenti morti a causa della guerra.


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sabato 23 marzo 2024

THE WORLD BELOW

1456_THE WAR BELOW . Regno Unito2021; Regia di J.P. Watts.

Uno dei passaggi chiave di The War Below è l’epilogo finale, quando il maggiore Hell-Fire Jack, al secolo John Norton Griffiths, (Tom Goodman-Hill), si reca dalla vedova Hawkin, Jane (Anna Maguire), per consegnarle la medaglia al valore guadagnata dal marito. La donna, comprensibilmente, liquida l’ufficiale a male parole; e questa potrebbe essere una chiusura condivisibile, per un film di guerra. Ma non siamo ancora ai titoli di coda. Riguardo alla posizione di Jane, sebbene come detto sia condivisibile, va allo stesso tempo riconosciuto all’opera di J. P. Watts il merito dell’interessante ricostruzione storica oltre ad essere un doveroso tributo a chi ha speso, in buona fede, la vita per un ideale. E poi, scendendo nello specifico, può anche essere che, in qualche caso, l’intervento militare sia stato indispensabile per evitare al proprio paese, quando non a mondo intero, un futuro nefasto. Detto ciò, la guerra è sempre da condannare e le parole di Jane sono in linea con le convinzioni pacifiste che si sono diffuse nel mondo occidentale dal secondo dopoguerra. Ma, il 2021, in Inghilterra, paese di produzione di The War Below, forse segna una curiosa inversione di tendenza: senza raggiungere i picchi di sciovinismo del di poco successivo The King’s Man: Le origini (di Matthew Vaughn) –film, peraltro di tenore completamente diverso– anche quello di J. P. Watts utilizza la figura dell’altro, del nemico, come qualcosa da eliminare senza alcuno scrupolo. Un concetto un tantino pericoloso che, guarda caso, utilizza la Prima Guerra Mondiale, e il conseguente ritorno ad un periodo molto antecedente alla recente “condivisione globale”, come veicolo narrativo. L’altro, il diverso, ritorna ad essere il nemico, senza se e senza ma. Un concetto purtroppo rimarcato più volte lungo il corso di The War Below: per il resto un bel film, ben costruito, capace di ottimizzare al meglio il budget non eccessivo tenendo sulla corda lo spettatore sfruttando l’ambientazione claustrofobica. William Hawkin (Sam Hazeldine) guida uno sparuto gruppo di Claykickers di Manchester, civili impiegati sul fronte per la loro abilità nello scavare tunnel sotterranei. Nel 1917 il fronte occidentale non si schioda; i tedeschi hanno scavato dei bunker, dove si rintanano durante i pesantissimi bombardamenti alleati. Buche da cui poi escono puntualmente illesi per rimbalzare ogni successiva offensiva britannica. 

Per sbloccare lo stallo, il maggiore Hell-Fire Jack, propone di scavare un tunnel che arrivi fin sotto le postazioni nemiche, e farle quindi saltare in aria. Ma il sottosuolo del territorio delle Fiandre Occidentali, in Belgio, è argilloso, il che lo rende facilmente franabile. Inoltre, i tedeschi hanno ormai maturato una certa esperienza, nelle operazioni sotterranee, e potrebbero facilmente udire i rumori di scavo, prendendo per tempo le contromisure. I Manchester Moles –le talpe di Manchester, così diverranno famosi Hawkin e i suoi– metteranno a servizio dell’esercito inglese la loro peculiare capacità di costruire tunnel, infilando nel terreno una sorta di badile che, ruotato coi piedi, riusciva a rimuovere e cavare fuori l’argilla senza l’utilizzo del piccone, risultando quindi un metodo particolarmente silenzioso. Il film, come tutti i film di guerra corali, si sofferma sulle varie personalità del gruppo e sulle dinamiche dei rapporti: in aggiunta a questo solito cliché, va considerato che i claykickers non erano veri militari e, questo fatto, unitamente a quello di scavare nelle profondità, li rendeva oggetto di discriminazione dal resto della truppa. Un altro tema che J. P. Watt inserisce, per alimentare a puntino la tensione del racconto, è la rivalità tra Hell-Fire Jack ed il suo diretto superiore, il colonnello Fielding (Andrew Scarborough), ufficiale di stampo più ottuso. 

Fielding, infatti, non vede di buon occhio la strategia del maggiore Hell-Fire Jack e preferirebbe continuare con gli assalti frontali, costi quel che costi (si sta parlando di sangue, come moneta, com’è ovvio). Inoltre, Hawking e i suoi, sono effettivamente carenti di disciplina militare, essendo sostanzialmente dei civili inseriti di punto in bianco nell’organico solo per la loro capacità di scavare tunnel, e la loro impreparazione sul comportamento da tenere nell’esercito indispettisce il colonnello. E’ evidente che, quelle di Fielding, siano argomentazione deboli e pretestuose: la disciplina di una manciata di uomini rapportata alla realizzazione di un piano ardito che, potrebbe, almeno negli intenti, dare una svolta alla guerra. Per enfatizzare ulteriormente il concetto, il film, J. P. Watts e Hell-Fire Jack rincarano più volte un concetto che lascia quantomeno perplessi. L’esplosione prevista –che passerà alla Storia come la più forte mai registrata sul pianeta, in quella che è nota come Battaglia di Messines– avrebbe sterminato i nemici salvando migliaia di vite umane, le vite dei giovani soldati britannici. Ecco, seppure sia legittimo non ricorrere al politicamente corretto in un film di guerra, il concetto che si evince in modo ineluttabile dal film pare formulato in modo un “tantinello” fazioso. Che diamine, i nemici sono pur sempre vite umane: nel contesto bellico, è normale che si pensi di eliminare, di uccidere, il nemico, ma questo per via della logica perversa della guerra. Che i personaggi di un film ambientato nel 1917 pensino in quei termini è accettabile, meno se è il film stesso ad assumere questo punto di vista. Inoltre, anche nel caso si abbia la necessità di eliminare il nemico, è bene, anzi, è indispensabile, ricordare che egli è e rimane un essere umano quanto noi. 

E’ proprio allora, nel momento in cui lo si deve eliminare –rimanendo nella logica bellica– che diviene ancora più importante ricordarne l’umanità. Possono sembrare sofismi, differenze di forma più che di concetto e forse è anche vero. Tuttavia, lo sciovinismo latente che inevitabilmente emerge quando non si prestano queste cautele, nel film di Watts, si avverte distintamente. E poi, nel caso si volesse anche credere che si tratti solo di un’impressione, c’è l’ultimo passaggio –quello di cui si è solo accennato in apertura– a toglierci ogni dubbio. Il maggiore Hell-Fire Jack ha ascoltato le dure parole di Jane, la vedova Hawkin. Era venuto a portare una medaglia in cambio del marito e la donna non è che abbia fatto i salti di gioia, come detto. Ma, prima di andarsene, l’ufficiale si ricorda che ha qualcosa da dare anche al figlioletto di casa Hawkin, Peter: il soldatino che il ragazzino aveva consegnato al padre come sorta di portafortuna. Un soldatino che reggeva una bella bandiera, la Union Jack, naturalmente, che proprio William, il padre del ragazzo, aveva sistemato poco prima della partenza. Il maggiore restituisce il soldatino a Peter riconoscendo, nell’atto del bambino che l’aveva affidato al padre, un valore simbolico e cruciale, nello spronare Hawing a fare il suo dovere fino in fondo, fino a rimetterci la vita. E, a proposito di vite umane, Hell-Fire Jack ravviva ancora una volta il concetto: l’azione di Hawking ha salvato tantissime vite umane. Non erano vite umane, evidentemente, i 10.000 tedeschi morti di schianto, per l’enorme esplosione di Messines, udita perfino a Londra, a quel che si diceva, come viene ulteriormente ricordato da una didascalia nel finale. Ma il peggio deve ancora venire: il maggiore, prima di levarsi dalle, ehm, scatole, richiama l’attenzione dell’attonito bambino per salutarlo militarmente. Peter rende diligentemente il saluto al suo… superiore? viene da chiedersi con un moto di sgomento. Poi, fila dritto in camera, sul comodino improvvisato altarino e pone il bravo soldatino portabandiera tra le medaglie d’onore, davanti alla foto del padre William, morto in un tunnel delle Fiandre. Missione compita, J. P. Watt: God save the King e tanti saluti al resto di quella che, vostro malgrado, rimane comunque umanità. 





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giovedì 21 marzo 2024

LA GRANDE PARATA

1455_LA GRANDE PARATA (The Big Parade). Stati Uniti1925; Regia di King Vidor.

Gli Stati Uniti d’America scesero in guerra nel primo conflitto mondiale solo nel 1917, quasi tre anni dopo l’inizio delle ostilità; ma ci volle dell’altro considerevole tempo prima che le truppe a stelle e strisce arrivassero in prima linea. In questo senso, La Grande Parata, il film americano del 1925 di King Vidor, rende abbastanza l’idea. La durata complessiva è di 140 minuti ma per più di un’ora di scene di battaglia non se vede nemmeno l’ombra. Dopo l’incipit negli Stati Uniti, il giovane Jim (John Gilbert) viene arruolato e mandato di stanza in Francia, insieme ai suoi inseparabili amici, Bull (Tom O’Brien) e Slim (Karl Dane). I tre danno vita ad una serie di gag che sembrano adeguate alle comiche del tempo, forse non a livello di quelle di Stanlio e Ollio ma, insomma… A stemperare un po’ il clima da film comico ci pensa Melisande (una splendida Renée Adorée) ma non certo nel senso di trasformare La Grande Parata in un film con qualche attinenza bellica, quanto per innestare una solida traccia romantica che poi, prevedibilmente, sarà quella che determinò la fortuna clamorosa dell’opera al box-office. La Adorée era una bella ragazza ma soprattutto aveva due fanali chiarissimi e splendidi al posto degli occhi e, anche se la qualità di una pellicola del 1925 non può certo essere considerata di grande resa, rimangono l’effetto scenico più efficace dell’intero lungometraggio. Vidor poi, sa come si racconta una storia d’amore e quindi riesce, con le opportune sferzate narrative, a preparare adeguatamente un finale di grande impatto emotivo. Nel frattempo, ovvero dal momento in cui Jim lascia Melisande a quando la ritrova per il lieto fine, arrivano anche gli eventi bellici. Il corpo militare di Jim è chiamato in fretta e furia al fronte e, dopo più di un’ora di film, il regista si premura di avvisarci, tramite la sovraimpressione La Grande Parata, che gli americani scendono in campo in pompa magna. Oddio, la primissima avanzata non promette granché, con gli statunitensi che avanzano incautamente allineati nella boscaglia, presto alla mercé delle proverbiali mitragliatrici tedesche. Poi il conflitto si fa più serio e Vidor dà sfoggio della sua classe registica con una serie di scene di grande impatto. Per la verità i nostri tre baldi giovanotti sembrano ancora non rendersi bene conto in quale inferno siano capitati, tanto che Slim, il più guascone del gruppo, viene fatto secco mentre, dopo un’azione, sembra quasi perdere tempo a scherzare con due elmetti tedeschi. 

Alla morte dell’amico Jim va in crisi di nervi e parte all’attacco allo scoperto, da solo, subito seguito da Bull che è meno fortunato del commilitone. Rimasto solo e disperato, Jim si avventa su un nemico in una buca da scoppio ma, pur vincendolo nel corpo a corpo, non se la sente di ucciderlo a sangue freddo. Gli offre anzi una sigaretta; il tedesco è solo un ragazzo, come lui, del resto; turbato da questa vista, prova a girargli la testa dall’altra parte ma il ragazzo è ormai morto. Nonostante il tempo del racconto dedicato agli scontri bellici sia relativamente breve rispetto alla lunghezza del film, Vidor sa il fatto suo e quando assistiamo al ritorno a casa di Jim, possiamo capire bene il suo stato d’animo. Che poi, oltre al trauma da battaglia e le pesantissime ferite il nostro, ripensando a Melisande non è certamente contento di tornare da una fidanzata che non ama più. Il regista, che è uno dei padri del cinema americano, si premura di sistemare le cose con anticipo, mostrando la madre che scopre la suddetta fidanzata amoreggiare col fratello di Jim. Il prevedibile lieto fine non andrà in quella direzione. Intanto il padre ha portato il reduce a casa: stiamo ancora pensando a come si evolverà la cosa, tra Jim, fratello e fidanzata, quando l’ex soldato entra dalla porta senza una gamba. L’emozionante carrello che stringe sul volto della madre, tagliando fuori dall’inquadratura, nel suo avanzare, fratello e fidanzata, è forse il momento migliore del film. Finale con Jim  che ritorna in Francia e, naturalmente, trova Melisandre: happy endindg per una volta pienamente meritato.







Ranée Adorée





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